Ogni essere, anche non ragionevole, si muove per raggiungere un fine. Negli esseri privi di ragione la determinazione all’agire viene prodotta dall’inclinazione naturale, chiamata appunto “ appetito naturale”; perché, non avendo intelligenza non conoscono la finalità delle cose, ma si muovono mossi dall’istinto.
Gli esseri dotati di ragione muovono liberamente se stessi al raggiungimento del fine, poiché sono padroni dei propri atti mediante il libero arbitrio, perciò la determinazione a raggiungere il fine è dovuta all’appetito intellettivo, detto volontà.
L’uomo si distingue dalle altre creature non ragionevoli perché è padrone dei propri atti; si dicono umane solo le azioni di cui l’uomo ha padronanza, egli è padrone dei suoi atti mediante la ragione e la volontà, quindi sono denominate propriamente umane le azioni che derivano dalla deliberata volontà.
Oggetto della volontà , cioè il fine ultimo a cui l’uomo naturalmente tende, è il bene.
Il bene,come ultimo fine, deve riempire talmente l’appetito, cioè il desiderio dell’uomo, da non lasciare niente che sia desiderabile all’infuori di esso.
Non sarebbe, infatti, perfetto il bene se si desiderasse ancora qualcosa al di fuori di esso.
Sebbene l’uomo desideri tutto in ordine all’ultimo fine, non sempre le sue singole azioni raggiungono questo fine perfetto, ma esse devono essere necessariamente desiderate come mezzi che aiutano a tendere al bene perfetto; infatti l’inizio di una cosa è sempre ordinata al suo completamento.
Non è infatti necessario che nell’agire e nel desiderare qualcosa uno pensi sempre all’ultimo fine, purché l’influsso della prima intenzione rimanga rivolta all’ultimo fine, come non è necessario che il viandante ad ogni passo pensi al termine del viaggio. E’ tuttavia necessario che gli uomini conoscano in precedenza questo loro fine ultimo e vi indirizzino le loro intenzioni e le loro azioni.
S. Agostino insegna che tutti gli uomini concordano nel desiderare come ultimo fine il raggiungimento della propria perfezione che è la beatitudine cioè la felicità piena. (I-II q.5 art. 1)
L’uomo è capace di conseguire la beatitudine perché il suo intelletto è in grado di apprendere il vero universale e perfetto, e la volontà è in grado di amare il vero come bene assoluto.
Aspirare alla beatitudine, non è altro che desiderare l’appagamento di tutti i desideri della volontà.
Per la fragilità e debolezza della natura umana, quando si tratta di stabilire l’oggetto in cui questa perfezione si trova, non sempre tutti concordano nello stabilire quale sia l’ultimo fine.
Alcuni infatti, desiderano come bene perfetto le ricchezze, altri i piaceri, altri ancora qualunque altra cosa.
Ora ad ogni gusto è piacevole il dolce: ma a qualcuno piace il dolce del vino, ad altri il dolce del miele o di altre cose.
Tuttavia il dolce più buono e piacevole dovrà essere senz’altro quello che è più gradito a chi ha il gusto più raffinato. Allo stesso modo sarà necessariamente perfetto quel bene che è desiderato come ultimo fine da coloro che hanno gli affetti e le inclinazioni ordinati da una retta ragione.
Come possiamo conoscere in che cosa consiste la perfezione dell’uomo, la sua felicità e beatitudine?
Seguendo la retta ragione possiamo dire che:
La beatitudine non può consistere nelle ricchezze.
Secondo Aristotele le ricchezze sono di due specie: naturali e artificiali.
Le ricchezze naturali sono quelle che aiutano l’uomo a colmare la sua indigenza naturale, come i cibi, le bevande, le vesti, i mezzi di trasporto, la casa o altre cose del genere.
Le ricchezze artificiali sono quelle che di suo non portano giovamento alla natura, esse sono inventate dall’industria umana per facilitare gli scambi, come il denaro..
Tutte le cose materiali obbediscono al denaro e sono ricercate dagli stolti i quali conoscono solo i beni del corpo. Ma i veri beni umani non devono essere giudicati secondo il parere degli stolti ma dei saggi, come trattandosi di giudicare dei sapori si ricerca il giudizio di chi ha il gusto sano e non dai malati.
Perciò le ricchezze devono essere ricercate solo per dare sostentamento alla natura dell’uomo, e sono ordinate ad aiutare l’uomo nel raggiungimento del fine ultimo.
Il possesso delle ricchezze, inoltre, non soddisfa, e se ne desiderano altre ancora perché se ne scorge l’insufficienza, questo dimostra la loro imperfezione, e quindi l’impossibilità che in esse consista il bene sommo e perciò l’ultimo fine.
E’ impossibile che la beatitudine consista negli onori
L’onore viene tributato a qualcuno per il suo valore. Esso è un segno e una testimonianza della grandezza che si trova in colui che è onorato. L’onore si rende agli eccellenti, ma non è l’onore che rende eccellenti.
Aristotele dice che l’onore non è il premio per cui agiscono gli uomini virtuosi, ma il vero premio della virtù è la beatitudine per la quale gli onesti agiscono. Se infatti agissero per gli onori, non vi sarebbe in loro virtù, ma ambizione.
Perciò l’onore che deriva dal riconoscimento della grandezza non può dare la felicità.
La beatitudine non può consistere nella fama, cioè nella gloria che viene dagli uomini.
La fama spesso è falsa, infatti molti acquistano una grande rinomanza per falsi apprezzamenti. E cosa vi è di più indegno? Coloro infatti che vengono falsamente celebrati devono vergognarsi dinanzi a se stessi per le lodi ricevute.
La conoscenza umana spesso si inganna e perciò la gloria umana è fallace.
La fama umana inoltre è priva di stabilità e facilmente si perde per una falsa diceria.
La beatitudine invece deve avere una stabilità intrinseca e perenne.
La beatitudine è un bene perfetto e quindi non può consistere nella potenza.
La potenza umana infatti è incapace di eliminare il morso della preoccupazione e le spine del timore che albergano anche nell’animo del potente.
E’ impossibile che la beatitudine dell’uomo consista nei beni e nei piaceri del corpo.
Aristotele fa osservare che le soddisfazioni corporali hanno assunto il nome di piaceri, perché molti limitano ad esse la propria conoscenza, sebbene vi siano soddisfazioni superiori.
I beni corporali che sono percepiti dai sensi producono un godimento materiale e limitato nel tempo e a determinati sensi, non è un godimento perfetto e tali beni, paragonati a quelli dell’anima, sono molto inferiori.
E’ impossibile che la beatitudine si trovi in un bene creato.
Se, come abbiamo visto, la beatitudine è il bene perfetto che appaga totalmente i desideri, i beni creati non sono in grado di appagare il cuore dell’uomo.
In che cosa allora si trova la felicità o beatitudine?
Perché si possa parlare di beatitudine è necessario il concorso di tre cose:
La visione, la comprensione, il godimento.
1) La visione, è la conoscenza perfetta del fine, e si raggiunge mediante l’intelletto.
Poiché l’intelletto ha per oggetto la conoscenza dell’essenza delle cose, cioè la conoscenza della realtà o natura intima delle cose, la perfezione di un intelletto si misura dal suo modo di conoscere l’essenza di una cosa.
Se l’intelletto arriva a conoscere l’essenza di un effetto ma non conosce l’essenza della causa
che ha prodotto quell’effetto, rimane in lui il desiderio naturale di conoscere l’essenza della
causa. E’ un desiderio che stimola la ricerca e questa ricerca non si ferma finché non arrivi a
conoscere la causa nella sua essenza.
L’intelletto umano arriva a conoscere l’esistenza di Dio, mediante la conoscenza della natura di un effetto creato, ma la perfezione così conseguita non è tale da raggiungere davvero la causa
prima, perciò gli rimane ancora il desiderio naturale di indagare la natura della causa, e quindi non è perfettamente felice.
Perché si possa dire felice, si richiede che l’intelletto raggiunga l’essenza stessa della causa prima, allora avrà la sua perfezione nel possesso oggettivo di Dio nel quale solo si trova la felicità dell’uomo.
2) La comprensione, implica la presenza del fine nell’intelletto.(Il termine comprensione ha due significati: sta ad indicare l’inclusione dell’oggetto in colui che lo comprende, e così tutto ciò che è compreso da un essere finito è cosa finita.
In questo senso Dio non può essere compreso da nessun intelletto creato.
La comprensione indica anche la presa di possesso di una cosa già raggiunta, come si direbbe
che un inseguitore ” comprende” la preda quando l’ha raggiunta.
Ed è questa seconda comprensione che è richiesta per la beatitudine.)
3) Il godimento o fruizione, nasce dal quietarsi del desiderio nel bene conseguito, e poiché la
felicità non è altro che il conseguimento del sommo bene, non può esserci felicità senza il
godimento che accompagna tale conseguimento. Il godimento è causato dalla visione di Dio, a
cui tende l’intelletto umano ,perciò chi vede Dio non può essere privo di godimento.
Come l’oggetto proprio dell’intelletto è il vero nella sua universalità, così l’oggetto della volontà, cioè l’aspirazione del cuore umano, è il bene universale, quindi è evidente che niente può appagare la volontà umana all’infuori del bene preso nella sua universalità.
Poiché ogni creatura ha una bontà partecipata, il bene nella sua universalità si trova solo in Dio ( I-II q.4 art.3)
.
La beatitudine dell’uomo quindi consiste essenzialmente nella unione col bene increato, e tale unione non può avvenire mediante una operazione dei sensi, ma i sensi sono richiesti come preparazione alla beatitudine imperfetta raggiungibile nella vita presente.
L’essenza della beatitudine consiste in una operazione dell’intelletto , perché se la felicità è una operazione umana, è necessario che sia l’operazione più nobile.
Ora l’operazione umana più nobile è quella che spetta alla facoltà più nobile in rapporto all’oggetto più nobile.
Ma la facoltà più nobile è l’intelletto e il suo oggetto più nobile è il vero e il bene divino.
La beatitudine quindi è l’ultima perfezione che l’uomo deve raggiungere mediante la quale aderisce totalmente a Dio in un modo unico, totale e sempiterno.
Nella vita presente siamo tanto lontani dalla perfetta beatitudine quanto lo siamo dalla continuità e dall’unità di tale godimento. Vi è tuttavia una certa partecipazione alla beatitudine tanto maggiore quanto l’operazione viene ad essere unitaria e continua.
Nella vita attiva, la quale si occupa di molte cose, si trova meno affinità con la beatitudine che nella vita contemplativa, la quale ha un unico oggetto, cioè la contemplazione della verità.
Nella vita contemplativa, l’uomo non sempre compie questa operazione, essa tuttavia si presenta come un’azione unitaria e continuata perché egli sempre è preparato a compierla, e perché ordina le stesse pause del sonno e di altre occupazioni, alla predetta operazione.
Per beatitudine perfetta quindi si deve intendere quella che esaurisce la vera nozione di felicità.
Perciò la felicità ultima e perfetta che ci attende nella vita futura consiste totalmente nella conoscenza di Dio e nel godimento del suo possesso.
Invece la beatitudine imperfetta, la quale è possibile nella vita presente, consiste innanzitutto e principalmente nella contemplazione.
La perfetta felicità dell’uomo non può consistere nella contemplazione di una verità che è partecipata da un oggetto secondario, ma solo nella contemplazione della Verità prima ed essenziale.
Dio soltanto è la Verità per essenza e solo la contemplazione di Lui rende perfettamente felici.
La beatitudine dell’uomo quindi consiste essenzialmente nella unione col bene increato, e tale unione non può avvenire mediante una operazione dei sensi, ma i sensi sono richiesti come preparazione alla beatitudine imperfetta raggiungibile nella vita presente.
L’essenza della beatitudine consiste in una operazione dell’intelletto , perché se la felicità è una operazione umana, è necessario che sia l’operazione più nobile.
Ora l’operazione umana più nobile è quella che spetta alla facoltà più nobile in rapporto all’oggetto più nobile.
Ma la facoltà più nobile è l’intelletto e il suo oggetto più nobile è il vero e il bene divino.
Per dimostrare che la felicità perfetta consiste nella visione dell’essenza divina, si impongono due considerazioni:
1) L’uomo non è completamente felice fino a che gli rimane qualcosa da desiderare e da cercare.
2) La perfezione di ciascuna potenza è determinata dalla natura del proprio oggetto.
La visione è superiore al godimento perché è la visione che causa il godimento.
La gioia consiste in un appagamento della volontà. Il godimento infatti è una perfezione concomitante e non una perfezione che rende la visione più perfetta.
L’intelletto conosce la nozione universale del bene al cui conseguimento segue la gioia, e perciò l’intelletto cerca più il bene in sé che il godimento. Infatti l’amore non cerca il bene che ama per il godimento, altrimenti sarebbe egoismo, ma piuttosto, è una conseguenza dell’amore godere del bene raggiunto.
Alla carità non corrisponde come fine il godimento, ma piuttosto la visione che rende il bene presente.
Poiché l’ultima beatitudine consiste nella visione della essenza divina che è l’essenza stessa della bontà, (infatti Dio è il sommo Bene ricercato dalla volontà) la volontà di chi vede l’essenza di Dio Lo ama necessariamente , e tutto ciò che ama , lo ama solo in ordine a Dio.
In questa vita si può avere una certa partecipazione della felicità, ma non la vera e perfetta beatitudine. Infatti la beatitudine, essendo un bene perfetto, esclude ogni male e appaga ogni desiderio. Ma in questa vita è impossibile escludere tutti i mali, essa infatti soggiace a molti mali che sono inevitabili; inoltre i beni di questa vita sono transitori e la vita stessa, che per desiderio naturale vorremmo far durare in perpetuo, avrà fine con la morte di cui l’uomo ha un istintivo orrore.
Nessuna natura raggiunge la beatitudine in maniera conveniente senza un moto operativo col quale
tenda al raggiungimento.
Ogni creatura tende a raggiungere la propria perfezione, che è una somiglianza della perfezione e della bontà divina.
Aristotele dice : “Tra gli esseri che sono capaci di possedere il bene perfetto, alcuni lo possiedono senza moto, altri con un solo moto, e altri con molti moti.
Ora possedere il bene perfetto senza moto appartiene a Colui che lo possiede per natura; possedere per natura la beatitudine è solo di Dio. Perciò è soltanto di Dio non muoversi verso la beatitudine con un’operazione che preceda la beatitudine stessa.
L’Angelo che in ordine di natura è superiore all’uomo, l’ha raggiunta con un solo moto del suo agire meritorio.
L’uomo invece la raggiunge con molte operazioni.
L’uomo, come abbiamo visto, è per natura principio dei suoi atti mediante l’intelletto e la volontà. Tuttavia la beatitudine preparata per lui è al disopra del suo intelletto e della sua volontà, quindi l’uomo non può raggiungere la beatitudine con le sue capacità naturali umane. Infatti, poiché la perfetta beatitudine consiste nella visione dell’essenza divina, vedere Dio per essenza supera non solo la natura umana ma la capacità di ogni essere creato e quindi anche degli angeli.
Perciò né l’uomo, né gli angeli possono conseguire l’ultima beatitudine con le sole capacità naturali.
Come la natura non ha manchevolezze con l’uomo per non averlo fornito di armi e di vesti come gli altri animali, ma gli ha concesso la ragione e le mani per acquistare tali cose, allo stesso modo non è manchevole per non avergli accordato un mezzo per raggiungere la beatitudine, perché questo era impossibile. Ma gli ha donato il libero arbitrio con il quale può volgersi a Dio che lo farà beato.
L’azione umana non è richiesta al conseguimento della beatitudine per l’insufficienza della virtù divina, ma per rispettare l’ordine delle cose.
Gli uomini infatti raggiungono la beatitudine con molteplici operazioni, cioè con le opere buone e i meriti, perciò la beatitudine è anche un premio delle azioni virtuose.
Ma questo Dio esiste veramente?
Se come abbiamo visto la felicità consiste nel godimento di Dio, non ci resta che conoscere se questo Dio esista veramente.
Come giungere a dimostrare che Dio esiste?
Non possiamo con la nostra intelligenza a conoscere l’essenza profonda di Dio perché essa ci supera infinitamente, ma possiamo arrivare a dimostrare che Dio esiste.
L’esistenza di Dio è dimostrabile, e saranno le creature stesse di Dio a manifestarne l’esistenza, infatti S. Paolo dice: “ Ciò che di Dio si può conoscere è manifesto. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua potenza e perfezione…..( Rm 1,20)
S. Tommaso ci aiuta quando dice: cioè possiamo dimostrarne l’esistenza per mezzo di quelle cose che sono a noi più note, cioè mediante quanto noi possiamo sperimentare con i nostri sensi.
L’esistenza di Dio, non essendo Egli a noi evidente, si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.
Che Dio esiste lo si può provare per cinque vie:
1) La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto.
E’ certo infatti e constata dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora tutto
ciò che si muove è mosso da un altro.
Se l’essere che muove è anch’esso soggetto al movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e
questo da un terzo e così via. Ora non si può procedere all’infinito. Dunque è necessario arrivare
ad un primo motore che non sia mosso da altri.
E tutti riconoscono che esso è Dio.
2) La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente.
Nel mondo sensibile troviamo che vi è un ordine tra le cause efficienti, cioè che ogni cosa che esiste ha una causa che l’ha prodotta. Risalendo di causa in causa, non si può pensare di risalire all’infinito, ma si trova una causa che non è causata da altra causa , dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente che tutti chiamano Dio.
3) La terza via è presa da ciò che può essere e da ciò che è necessario che sia.
Alcune cose infatti, nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora
è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere,
non esisteva.
Bisogna dunque giungere all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga
da altri la propria esistenza, e di cui gli altri abbiano assoluta necessità per esistere.
E questo tutti chiamano Dio
4) la quarta via si deduce dal considerare i vari gradi di perfezione che si riscontrano nelle cose che ci circondano. Nelle cose, infatti, si trova il bene, il nobile e altre simili perfezioni in grado maggiore o minore.
Tale grado, maggiore o minore, si attribuisce a seconda che si accosta di più o di meno alla perfezione nel sommo grado.
Da ciò ne consegue che vi è qualcosa che è vero al sommo, e nobilissimo, cioè qualcosa che è la suprema perfezione.
E questo tutti chiamano Dio.
5) La quinta via si desume dal governo delle cose.
Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la specifica perfezione; quindi operano non a caso, ma per una predisposizione. Ora ciò che è privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere intelligente dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine.
E questo Essere tutti chiamano Dio.
(cfr. Summa I- 2,3)
Non rimane quindi che concludere con S. Agostino: “ Signore, tu ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te.”